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Da Morfasso a Parigi: cento anni di una storia di emigrazione e di privazione dal cibo. Contributo di Andrea Bergonzi

Molti racconti che compongono l’enorme e mutevole mosaico del fenomeno dell’emigrazione piacentina spesso mostrano un forte legame con il cibo: chi a Londra ha insegnato agli inglesi cosa significhi “panino imbottito”, chi a Parigi ha fatto conoscere le leccornie piacentine, chi in Germania ha spiegato ai tedeschi come fare il gelato e così via. Molte storie, s’è detto, hanno a che fare col cibo e pure questa, a dire il vero, ha a che fare con esso, anche se in tutt’altro modo e sotto tutt’altra prospettiva. Non è la storia di un piacentino che, giunto in terra straniera, ha fatto fortuna ed è diventato un grande imprenditore. Purtroppo no. Questa è una storia di privazione dal cibo, dal triste epilogo.


Una povera vedova quarantenne stretta attorno ai suoi cinque figli piange dalle panche di una chiesa di montagna la tragica scomparsa del giovane marito, confortata ed al contempo esortata dal parroco con queste parole:

«Alla famiglia desolata, le nostre sincere condoglianze: ai cinque orfani, questa raccomandazione, che è un ricordo: Vostro padre è morto sulla breccia, è morto sacrificato sopra l’altare del proprio dovere. Voi seguitelo! Voi imitatelo!».

Era il 26 agosto 1924 quando nella chiesa parrocchiale di Pedina di Morfasso in alta val d’Arda l’allora prevosto, don Luigi Muratori, celebrava i funerali del nemmeno cinquantenne Pietro Cavaciuti, rientrato dall’emigrazione in Francia pochi mesi prima: finiva troppo presto una vita vissuta all’insegna del lavoro, dell’abnegazione, della ricerca di un futuro migliore per la propria famiglia, passata attraverso l’emigrazione in Francia per risollevarsi dalla povertà.

E pensare che Pietro, primogenito di quattro fratelli, nacque a Rusteghini di Morfasso il 16 luglio 1877 in una famiglia piuttosto agiata che, per quanto possa comunque essere agiata una famiglia di agricoltori di montagna, era proprietaria di una grande casa da poco ristrutturata e di ampi fondi coltivi e boschivi: nulla di ciò che serviva mancava a quel tempo. Nonostante la legge Coppino emanata proprio nel 1877 e la relativa agiatezza famigliare, Pietro non frequentò le scuole pubbliche del paese risultando analfabeta nel 1897 quando si presentò alla visita di leva. Nel marzo dell’anno seguente, col 49° reggimento fanteria, venne inviato sull’isola di Creta a sedare una sommossa contro gli ottomani che opprimevano gli abitanti dell’isola greca. Pietro rientrò in patria alla fine del giugno dell’anno seguente.

Poco più che ventenne sposò il 2 maggio 1901 Caterina Antonioni, una giovane della vicina frazione di Salino. Prevedendo che di lì a poco la famiglia sarebbe aumentata, nell’ottobre del 1902 decise di emigrare, tra i primissimi della zona, in Francia dove però riuscì a racimolare pochi guadagni spendendosi come scaldino e come manovale. Stanti le ferree regole francesi del tempo sull’emigrazione, nell’estate del 1904, non avendo trovato un’occupazione stabile, dovette rientrare in Italia. A Rusteghini ritrovò la moglie Caterina con in braccio il loro primo figlio, Ernesto, nato nel maggio dell’anno precedente. Restò con la famiglia per qualche anno, tanto che nel frattempo nacquero altri figli, Bernardo (che morirà poco tempo dopo la nascita), Luigi ed un altro Bernardo. Il lavoro dei campi però non era più sufficiente e la casa avita diventava sempre più stretta, dato che nel frattempo si era sposato anche il fratello Francesco e altrettanto avrebbe fatto di lì a poco un altro fratello, Celeste.

All’inizio del 1913, con la moglie Caterina incinta del quinto figlio (che nascerà d’estate e verrà battezzato col nome di Giuseppe) tornò imprescindibile la necessità di emigrare di nuovo: era l’unica soluzione per cercare di garantire un futuro dignitoso ai suoi figli. Ancora una volta la meta prescelta fu la Francia. Questa volta Pietro, però, non era più un pioniere; infatti, molti del paese avevano fissato la loro destinazione nella Ville lumière, facendo di Rue de Crimée una piccola Rusteghini: tutti vicini, tutti insieme per darsi conforto e sostenersi a vicenda in quella complessa situazione. Tra questi vi era sua cognata, Giovanna Salvoni, moglie di Francesco, che era il punto di riferimento per tutti coloro che dal paese emigravano in Francia. Grazie alle sue capacità relazionali ed alle sue conoscenze, Giovanna trovò un lavoro stabile al cognato Pietro che iniziò a lavorare continuativamente riuscendo a mettere via un po’ di risparmi.

Nel maggio del 1915 Pietro, così come gli altri emigrati italiani, dovette fare rientro in Italia per l’inizio della Grande Guerra. Inquadrato nel 119° battaglione della Milizia Territoriale, Pietro combatté per intero il conflitto mondiale venendo congedato definitivamente nel novembre del 1918. Tra le atrocità ed i dolori della guerra in trincea vissute durante il conflitto bellico, un altro se ne aggiungeva proveniente dal paese nativo: nel 1917 era morto l’anziano padre Luigi. Si aprì così, probabilmente al rientro di tutti i fratelli di Pietro dal conflitto mondiale, la necessità di una spartizione dell’eredità paterna. Gli accordi tra i fratelli furono favorevoli a Pietro che, primogenito, ereditò l’intera abitazione paterna, mentre gli altri fratelli (Francesco, Celeste e Modesto) dovettero “accontentarsi” di dividersi il relativamente ingente patrimonio terriero. Pietro poté così restare ad abitare nell’antica casa di famiglia, ma rimase senza la principale fonte di sussistenza per una famiglia contadina: la terra. Un problema non da poco riuscire a capire come mettere il cibo nel piatto dei propri figli.

Tuttavia, il caso volle che un lontano cugino, rimasto senza eredi, proprio in quel periodo avesse deciso di vendere le proprie terre a Rusteghini. Si trattava di un lotto di circa un centinaio di pertiche (una superficie di tutto rispetto per l’epoca e per una famiglia di montagna) comprendente fondi piuttosto ampi, equamente ripartiti tra prati e boschi e di un certo pregio agricolo. Tra tutti uno, detto la Pradà, catturò l’interesse di Pietro: un grande campo di oltre dieci pertiche, unito ad un altrettanto vasto bosco oltre ad un rigoglioso frutteto, situato proprio nei pressi del torrente Arda e ad un solo quarto d’ora a piedi da casa. La somma da corrispondere era piuttosto ingente, ma stante la contingente necessità e la qualità dei fondi Pietro capì che era l’occasione della sua vita per sistemarsi definitivamente e, soprattutto, assicurare un avvenire alla sua famiglia (che nel frattempo era ulteriormente cresciuta con la nascita di altre due figlie, Angela e Giovanna). La decisione fu presa: acquistare. Per pagare il debito, però, da allora la parola d’ordine per Pietro fu una sola: lavorare, lavorare ed ancora lavorare. Nel corso del 1919 ritornò in Francia e si gettò anima e corpo nel lavoro, risparmiando tutto quanto gli era possibile, perfino il cibo. Un’abnegazione totale al dovere, alla famiglia, all’onorare i debiti contratti. Lo zelo di Pietro però lo portò ad un eccesso di privazioni, come racconta don Luigi Muratori, fraterno amico dello stesso Pietro, in un articolo apparso nel numero di settembre del 1924 del bollettino parrocchiale, dallo stesso parroco redatto, dal titolo Corriere di Pedina:

«Partito [l’ultima volta] per la Francia, si viaggiò assieme sino alle Bore, e l’ultime sue parole furono queste: Signor Parroco; la mia famiglia, la metto nelle sue mani. Non disse altro! Mi abbracciò, ed io, commosso per tanta fiducia, m’accorsi che lui poveretto piangeva, perché il mio volto era bagnato delle sue lacrime. A Parigi conobbe la privazione, il sacrificio; tormentato dalla febbre del lavoro, un pensiero solo lo sosteneva: lavorare sempre, lavorare molto, lavorare un giorno più dell’altro per il buon andamento della sua famiglia. Ritornato dopo molti mesi, mi rivelò il suo brutto avvenire, mi disse di una brutta malattia che lo martoriava da diverso tempo. In cerca di salute, si andò assieme a Piacenza per chiedere il parere di specialisti; ma tutto fu vano: il male era ormai troppo avanzato, e Pietro ritornò rassegnato».

Stante la tenacia del suo carattere, Pietro dovette infatti arrendersi alla malattia e fu costretto verso la fine del 1923 a rientrare in patria. Pur di risparmiare tutto il denaro possibile da inviare a casa per colmare i debiti, finì addirittura col non alimentarsi più. L’indebolimento e la denutrizione lo portarono in breve tempo al completo deperimento. Nessuna cura fu per lui più possibile e nella sera del 24 agosto 1924, giorno di san Bartolomeo, giorno di festa in alta val d’Arda per la grande e rinomata fiera che si tiene nella vicina Bardi (oggi in provincia di Parma), Pietro si spegnava, attorniato dalla sua grande e numerosa famiglia. Il parroco dirà con rammarico:

«È scomparsa dalla nostra Parrocchia una figura di lavoratore indefesso, è scomparso un buon padre di famiglia. Di carattere un po’ impetuoso, racchiudeva però in petto un cuore buono e generoso. Conosciuto a fondo, come noi, si sentiva il bisogno di volergli bene».

E l’esortazione che fece don Muratori durante l’elogio funebre pronunciato nel corso delle esequie del povero Pietro è stata raccolta, soprattutto, dalla sua ultima figlia, Giovanna, nata soli tre anni prima della sua scomparsa: l’unica peraltro sopravvissuta alla seconda guerra mondiale tra i tanti figli di Pietro. A sua volta lavoratrice indefessa, amò e coltivò il ricordo del suo povero genitore misconosciuto col suo lavoro, con l’essere ciò che suo padre avrebbe voluto essere, col trasmettere ai suoi discendenti (tra i quali chi scrive) il valore del lavoro e del sacrificio per raggiungere i propri obiettivi. E, in qualche misura, la memoria del povero Pietro Cavaciuti, del quale peraltro ricorre proprio quest’anno il centesimo anniversario della morte, è portata avanti da nipoti e pronipoti che, divenuti proprietari dei fondi da lui acquistati con tanto sacrificio, oggi, pian piano, stanno riportando all’antico splendore il grande fondo chiamato la Pradà, tanto amato da Pietro, ripristinandone le siepi, pulendo il bosco e mantenendo vivido, proprio attraverso il lavoro, quasi in un ideale circolo chiuso, il doveroso compito di ricordare questa piccola, triste ma altamente edificante storia di emigrazione ed umanità piacentina.

Bibliografia:

  • MURATORI L., I nostri cari morti in «Corriere di Pedina», n. 09/1924, p. 6
  • BERGONZI A., La famiglia dei Bigarö. Storia e genealogia di una famiglia di Rusteghini dal Quattrocento ad oggi, L.I.R., Piacenza, 2010.

Fonte: Contributo a cura di Andrea Bergonzi raccolto all'interno del progetto "La Pasta in valigia" coordinato dal Comune di Piacenza con il contributo della Consulta ER nel mondo, grazie alla collaborazione della Biblioteca Comunale Passerini-Landi.

 

Progetto

Titolo: "La Pasta in valigia: percorso storico-gastronomico sulle rotte dell'emigrazione piacentina" 

L'obiettivo del progetto è stato quello di ricostruire il ruolo, storicamente rilevante, svolto dagli emigrati del territorio emiliano-romagnolo nella “diffusione” del cibo, della cultura e delle pratiche alimentari regionali all'estero. Nella storia di queste esperienze migratorie entrano gestori di trattorie, dettaglianti, grossisti, titolari di negozi di quartiere che fornivano alle famiglie immigrate prodotti di consumo, ma anche una fondamentale presenza attorno alla quale cresceva la vita sociale della comunità. Fu proprio questa rete - che il progetto intende ricomporre anche attraverso la raccolta di ricordi e testimonianze delle famiglie di emigrati - a mantenere viva la tradizione della cucina familiare.

L’abilità nella trasformazione del cibo e il ricordo di ricette di famiglia davano la possibilità a chi era partito di mettere a frutto i saperi e le conoscenze della propria terra e a chi non era mai stato nel nostro paese - le generazioni successive - di poter fare, anche a tavola, “esperienza” dell’Italia.

Partner: AS.PA.PI. Associazione di Parma e Piacenza (Francia), Nuove generazioni TERRA Mar del Plata (Argentina), Piacenza nel Mondo APS (Italia)

TESTIMONIANZE E PERSONAGGI