FROM
TO
Piero e la sua “Piccola Venezia” nel cuore di Londra: testimonianza della figlia, Maria Bellini, raccolta all'interno del progetto "La pasta in valigia" coordinato dal Comune di Piacenza e realizzato con il contributo della Consulta ER nel mondo

Verso la fine degli anni Cinquanta, i fratelli Francesco e Piero Bellini, nati rispettivamente nel 1930 e nel 1933, lasciarono San Michele di Morfasso per raggiungere, come molti altri conterranei, Londra. Francesco andrà avanti a farsi una vita e famiglia nel nord dell'Inghilterra, dove inizialmente lavorerà come minatore, per poi mettersi in proprio aprendo un caffè e una fattoria.

Piero decise invece di rimanere a Londra ove, nei primi anni Sessanta, iniziò a lavorare nell'ambito della ristorazione aprendo il suo primo ristorante, “La Toscana”, a Notting Hill Gate. Tra i frequentatori vi era anche una ragazza alta, bionda, con occhi azzurro-ghiaccio e con uno spiccato accento scandinavo, Lilleka Arntzen che sposò nel 1967.  Dal matrimonio nel 1968 nacque Maria.

Nel periodo tra gli anni Sessanta e i primi anni 2000, a Piccadilly, Piero aprì diverse attività come “La Romantica e “La Cucina”. Partecipò come socio a “Pasta & Pizza” nelle sedi di Notting Hill Gate e Dean Street. La sua ultima impresa fu “Pierino's Pasta and Pizza”, a South Kensington, dove lavorò fino alla sua scomparsa nel 2003.

Le esperienze imprenditoriali di Piero sono state diverse, ma, come ricorda la figlia Maria Bellini, 

«probabilmente il ristorante più vicino al suo cuore era “La Piccola Venezia”, il locale che aveva creato insieme a mia mamma alla fine degli anni ‘60.  L'arredamento era scenico, soprattutto perché la progettazione era stata affidata a mia mamma, insegnante di ceramica ed ex studente delle belle arti. La clientela veniva fatta accomodare su sedute di velluto rosso, in accoglienti nicchie, quest’ultime divise tra di loro da bianche colonne corinzie e pannelli decorativi orlati da merli in miniatura. E appena sotto il soffitto blue notte, un finto soppalco colonnato correva tutt’intorno la sala.  Sulle pareti erano appese riproduzioni di Canaletto con i canali di Venezia e il Palazzo Ducale. E tra un quadro e l’altro, in basso rilievo ruggiva il simbolo del ristorante, il Leone alato di San Marco, rifinito in bianco e oro.

Il menu de La Piccola Venezia aveva l'obiettivo di stupire. Il capo cuoco Arturo, anch'egli di San Michele di Morfasso, aveva raccolto la sfida in modo impeccabile, producendo piatti che si sposavano perfettamente con il mood del ristorante. Nella cucina del seminterrato, le pietanze potevano essere arricchite con panna, burro, vino, marsala o brandy. Il menu proponeva, tra l’altro, Escargot, Filetto Rossini, Scampi alla Provenzale, Sogliola di Dover, Tartare di Filetto e un gustoso Pollo alla Kiev, poi Pollo alla Valdosatana e Saltimbocca alla Romana. Il salame era "Milano" e gli spaghetti "Bolognese".

In sala, camerieri in camicia rossa e papillon, stavano sull’attenti, pronti ad elaborare ulteriormente  le pietanze, o con una spruzzata di pepe dal macinapepe enorme, oppure con abbondante cucchiaiate di parmigiano grattugiato.  E per arricchire maggiormente quest’autentica esperienza italiana, in sottofondo si potevano udire le voci di cantanti come Massimo Ranieri, Little Tony e Gino Paoli.  Il cibo, l'ambiente e l'atmosfera erano azzeccatissimi per quel momento storico nella capitale, e La Piccola Venezia spesso registrava il tutto esaurito».

Diversa era la situazione in casa, ove la cucina era affidata alla mamma norvegese. Ma le radici piacentine non si scordavano: 

«Il babbo coltivava ostinatamente pomodori, fagiolini e lattuga in un orto di buone dimensioni sul retro del nostro giardino. Indossando stivali di gomma e un cappello di paglia, scavava, potava e innaffiava in uno stoico silenzio. Un anno aveva fatto anche il vino nel capanno degli attrezzi in giardino con l'uva che gli era stata consegnata dall'Italia. Il vino era imbevibile, ma incoraggiato dall'esperienza, l'anno successivo aveva piantato una vite. Era cresciuta sola uva piccola e grama, e alla fine la vite era stata fatta crescere sopra un gazebo dove veniva apprezzata principalmente per l’ombra che forniva. In autunno, di domenica pomeriggio, spesso papà si infilava i stivali di gomma e andava a Windsor in cerca di funghi porcini. E li trovava anche. Il raccolto veniva portato al ristorante, e impannato e fritto da Arturo, oppure portato a casa, da stendere su teli e fare essiccare sotto la finestra nella camera degli ospiti».

Con i ritorni estivi a San Michele per Maria il

«cibo prendeva vita. Penso alle vacanze estive degli anni ’80 a un tiepida micca di pane profumata di buono, alla focaccia che ti lascia granelli di sale e olio sulle labbra, al conforto di un morso di torta di patate leggermente zuccherina, tutto preparato dalla famiglia Oddi che gestiva il panificio del paese. Penso ai cento grammi di coppa piacentina rossa-rubino appena affettata in bottega. Penso all’Albergo Rapacioli, e a un piatto di morbidi gnocchi con un sugo ai funghi che profumava di Monte Moria. Penso alla polenta compatta, gialla e rugosa che mio zio Guido preparava nel paiolo sopra la cucina economica a legna. E penso alle leggerissime frittelle di Carnevale, dove all’impasto, lo zio aggiungeva una patata lessa, schiacciata, e un pochino-pochino di birra. E dopo tanti anni passati a vivere in Emilia-Romagna, dopo aver osservato molte donne e uomini in cucina, chiesto infinite domande, pian piano anch’io avevo imparato a fare i pisarei e fasò, le chicche della nonna, i turtlitt di Natale, il castagnaccio, la sbrsiolona e qualche piatto di pasta. Anche se, dal tortello piacentino, la 'coda' mi sfugge sempre. Ma sopratutto credo d’aver identificato quell'ingrediente misterioso.  Non si compra né si coltiva. E non conosce confini geografici. Chi prepara il cibo, chi lo pensa, e chi lo cucina tiene il potere di illuminare un piatto aggiungendo quell'ingrediente magico, che è nientedimeno che... un pizzico d’amore». 


Fonte: Testimonianza di Maria Bellini raccolta per MIGRER all'interno del progetto "La Pasta in valigia" coordinato dal Comune di Piacenza con il contributo della Consulta ER nel mondo, grazie alla collaborazione della Biblioteca Comunale Passerini-Landi.

 

Progetto

Titolo: "La Pasta in valigia: percorso storico-gastronomico sulle rotte dell'emigrazione piacentina" 

L'obiettivo del progetto è stato quello di ricostruire il ruolo, storicamente rilevante, svolto dagli emigrati del territorio emiliano-romagnolo nella “diffusione” del cibo, della cultura e delle pratiche alimentari regionali all'estero. Nella storia di queste esperienze migratorie entrano gestori di trattorie, dettaglianti, grossisti, titolari di negozi di quartiere che fornivano alle famiglie immigrate prodotti di consumo, ma anche una fondamentale presenza attorno alla quale cresceva la vita sociale della comunità. Fu proprio questa rete - che il progetto intende ricomporre anche attraverso la raccolta di ricordi e testimonianze delle famiglie di emigrati - a mantenere viva la tradizione della cucina familiare.

L’abilità nella trasformazione del cibo e il ricordo di ricette di famiglia davano la possibilità a chi era partito di mettere a frutto i saperi e le conoscenze della propria terra e a chi non era mai stato nel nostro paese - le generazioni successive - di poter fare, anche a tavola, “esperienza” dell’Italia.

Partner: AS.PA.PI. Associazione di Parma e Piacenza (Francia), Nuove generazioni TERRA Mar del Plata (Argentina), Piacenza nel Mondo APS (Italia)

TESTIMONIANZE E PERSONAGGI