Per ragioni misteriose, il piccolo centro parmense di Borgotaro si è trovato a “esportare” musicisti. Nata negli anni Venti dell’Ottocento tra Berlino e Vienna, che se ne contendono la paternità, la fisarmonica ha cominciato presto a parlare italiano. Sorta da radici pastorali antichissime, abbraccia i suoni della terra, il ballo spontaneo che suscitano i semplici moti della vita. La naturale predisposizione italiana al canto ha fatto sì che anche sulle montagne di Parma i ragazzi innamorati, davanti alla casa della loro bella, intonassero parole d’amore accompagnandosi con questo strumento. Suonata a orecchio oppure fatta respirare tra partiture colte, la fisarmonica ha faticato a smentire il pregiudizio che la voleva adatta solo ad accompagnare balli popolari e divertimenti alla buona nelle periferie dell’anima. Giuseppe Verdi è stato il primo tra i grandi compositori a riservarle una parte nella scena della taverna del suo “Simon Boccanegra” del 1857. All’inizio del Novecento le fabbriche italiane esportavano fisarmoniche in tutto il mondo, ma il centro di irradiazione della musica era un paese nell’Appennino parmense, Borgotaro. Per ragioni misteriose questa località della Val Taro ha dato origine a talenti di ogni genere, da Giovanni Pacolini, suonatore di liuto presso la corte ducale nel Cinquecento, a Giuseppe Brugnoli, noto come “il flautista di Toscanini”, fino ai virtuosi della fisarmonica. Sono stati proprio questi musicisti a diffondere il nome del borgo e della valle nei bar e nei ristoranti di New York, come nei quais lungo la Senna a Parigi.
Tra i pionieri dello stile italiano negli States c’è John Brugnoli, il fondatore della Val Taro Musette Orchestra. La sua fisarmonica ha accompagnato i “radio days” di tante massaie italoamericane negli anni Quaranta, che stirando o rassettando la casa imparavano i suoi motivi. John era soprannominato Giano d’Scud’lein, per via del nonno che era solito bere il vino da una scodella. Nato a Borgotaro nel 1898, fu istruito all’uso dello strumento dal fratello minore Luigi, uno dei primi musicisti a suonare la fisarmonica a piano. Le scarse risorse dell’Appennino condannavano a quel tempo tante famiglie all’emigrazione. Nel 1928 anche il nipote di Scud’lein scelse la via dell’America, dove all’inizio, come immigrato clandestino, sbarcava il lunario vendendo funghi. Regolata la sua posizione dopo una permanenza in Canada, si fece raggiungere a New York nel ’35 da moglie e figli. Qui John trovò un ingaggio come fisarmonicista al cabaret Francino. La voglia di farsi valere come musicista lo spinse a cercare un compagno con cui intraprendere l’avventura di un locale in proprietà, dove suonare e far ballare la gente.
Scelse come socio Pete (Pietro) Delgrosso, chiamato Filumena, conosciuto a Borgotaro, e anche lui emigrato a New York, dove si guadagnava da vivere suonando la fisarmonica al Bel Tabarin, nel West Side. Ottenuta in prestito la somma necessaria per aprire il locale dei loro sogni, Scud’lein e Filumena inaugurarono la vigilia di Natale del ’36 The Valtaro Restaurant al n° 869 della Second Avenue, tra la 46esima e la 47esima Strada. Con il chitarrista Joe Cerina crearono uno stile riconoscibile, che utilizzava come base per il ballo le melodie popolari dell’Italia settentrionale, quali polke, mazurche e valzer. Ne usciva un impasto sonoro che si poteva fischiettare tra i grattacieli di Midtown. Quando attaccavano “Tutti mi chiamano bionda”, il loro più grande successo, l’impulso al ballo diventava irresistibile. Il Valtaro sound, se così possiamo chiamarlo, era costruito utilizzando due fisarmoniche, una che creava la melodia, l’altra l’armonia. Nei primi anni Cinquanta la Val Taro Musette Orchestra aveva già all’attivo diverse raccolte con importanti case discografiche. Nel frattempo, John Brugnoli aveva venduto la sua quota del Valtaro e aperto un nuovo cabaret con l’amico Emilio Spagnoli, il Terrace Cafè, tra Second Avenue e la 59esima Strada. Poi fece ritorno al Valtaro, che cessò l’attività nel 1961. L’anno seguente uscì per la Colonial Records l’album “Sing Along in Italian” e nel 1973 John Brugnoli e Pete Delgrosso ottennero il premio alla carriera dalla American Accordionists’ Association.
Un’altra icona dello stile musette italiano fu Peter Spagnoli, classe 1921, emigrato da Borgotaro con la famiglia a soli due anni, e figlio di Emilio Spagnoli, che nella sua casa sulla 60esima strada, nella East Side di Manhattan, ospitò per un certo periodo John Brugnoli. Fu quindi da Scud’lein che Peter imparò a leggere la musica e i segreti della fisarmonica. Il repertorio, naturalmente, era costituito dalle canzoni popolari della Val Taro e Peter, che ora veleggia verso i novant’anni e vive nel Queens, ricorda che a soli undici anni fu messo su un palco con una fisarmonica in mano, per suonare per l’esercito a Governor’s Island. Per l’occasione gli fu fatto indossare – ancora non sa perché – un costume spagnolo. Più avanti il ragazzo raggranellò qualche soldo suonando la notte nel bar The Emiliana e altri piccoli “buchi nel muro”, come li chiama. Quando il padre Emilio e John Brugnoli acquistarono nel ’39 il Terrace nei quartieri residenziali, Peter ebbe modo di fare un salto di qualità. In quel cabaret, infatti, si esibivano musicisti come Norma Mc Feeters, una pianista nera delle Indie Occidentali, e il batterista ebreo Willy Wohlman, che sembravano avere nel DNA la musica dell’Appennino parmense. Si facevano delle jam session in cui ognuno metteva del suo: il risultato era un locale sempre affollato, dove la gente veniva per ascoltare musica, ballare e cercare l’anima gemella.
Dopo la parentesi della guerra, arruolato in aeronautica come navigatore dei bombardieri, Peter tornò a suonare al Terrace, dove conobbe Dilma, la ragazza che sposò nel ’47. Divenne poi insegnante di fisarmonica in una scuola di Brooklyn e quindi maestro in proprio, continuando a esibirsi al Terrace fino agli anni Sessanta, accompagnato da Norma al pianoforte. Peter Spagnoli a New York era sinonimo di fisarmonica: da solo o con la sua orchestra di dieci elementi, era continuamente invitato a suonare a ricevimenti, matrimoni, cene politiche, serate di beneficenza, fino ai rinfreschi in occasione dei Bar mitzvah degli ebrei. Si è ritirato dalle scene nel ’95, dopo aver registrato diversi album di Valtaro Musette e provato tutti i generi, dalla musica latina al rock, al repertorio delle big band. L’ultima apparizione qualche anno fa al matrimonio della nipote, dove ha aperto le musiche con “Tutti mi chiamano bionda”.
Questi nomi che oggi ai più non dicono niente – John Brugnoli, Pete Delgrosso, Peter Spagnoli – sono ricordati con affetto sul sito della Valtarese Foundation di New York dai loro biografi, Dominic Karcic e Carol Schiavi, figlia di Peter Spagnoli. La storia continua: ogni anno, una domenica, negli Stati Uniti si fa festa con la Valtaro Accordionists’ Reunion, il raduno dei fisarmonicisti della Val Taro.
Tra gli Anni Venti e i Sessanta del Novecento, ebbe grande diffusione in Francia il valse musette, detto anche il “valzer del popolo”, in contrapposizione a quello viennese, identificato come il ballo della nobiltà e della borghesia. Mentre i valzer viennesi suonati dalle grandi orchestre si erano trasformati ormai in musica d’ascolto, la musette, che prendeva nome da un antico strumento simile alla cornamusa, si radicava sempre più tra gli strati più umili, divenendo il ballo del proletariato francese. Un ballo che esigeva parole e semplicità compositiva, perché le persone amavano canticchiare e fischiettare i motivi. Lo strumento più adatto ad accompagnare il canto era la fisarmonica, che aveva soppiantato la musette. E’ qui che entrano in scena i musicisti di Borgotaro a Parigi: almeno tre di loro sono stati tra i più grandi autori del genere, che vantava tra i suoi interpreti Edith Piaf.
Molti suonatori di valse musette erano vagabondi che con la loro fisarmonica si fermavano nelle piazze a cantare, come si è visto in tanti film. Parole di amore o di miseria finite in bocca a emigranti, canzoni di strada che dalle aie della pianura padana o dai sentieri d’Appennino potevano arrivare nei crocicchi parigini, nei quais de la Seine – che è anche il titolo di un brano di Louis Ferrari (Borgotaro 1910 – Nizza 1987). Compositore e fisarmonicista, naturalizzato francese, Ferrari è l’autore di quella che è considerata dagli intenditori una delle più belle musette di ogni tempo, Domino. Sapeva unire tecnica raffinata e sensibilità, e far ballare le coppie al ritmo struggente dei suoi valzer. Louis Ferrari è stato anche un bravissimo suonatore di bandoneón, la versione argentina della fisarmonica e strumento principe delle orchestre di tango.
Louis Ferrari ha avuto anche il merito di lanciare nel mondo del cabaret e del music-hall il cugino Antonio Murena, in arte Tony Murena, musicista di eccezionale virtuosismo e rara eleganza. Emigrato da Borgotaro con la famiglia nel 1923, a cinque anni, a Nogent-sur-Marne, un comune della banlieue parigina dove da tempo si era radicata una comunità italiana originaria delle vallate piacentine e parmensi, il piccolo Tony a nove anni suonava già la fisarmonica cromatica regalatagli dallo zio. Andava, come si diceva a “faire les bals”, a far ballare la gente nei locali. Dopo alcuni ingaggi nei cabaret Le Chantilly e L’Ange Rouge, si dedica al bandonéon nel 1932 e, scoppiata la moda del tango, comincia a suonare in varie formazioni, tra cui quelle di Rafaël Canaro e di Eduardo Bianco, le migliori orchestre di tango a Parigi. Col suo quintetto suona a La Silhouette, a La Boule Noire, a La Java, al Pré Catelan, da Ciro’s : si può dire sia stato lui il maggior interprete dello swing musette francese. Infatti fino dai primi anni Quaranta si era convertito al jazz, avendo compreso come la fisarmonica potesse adattarsi anche all’ambito colto. Oggi è normale vedere Richard Galliano, il fisarmonicista più noto al mondo, rileggere in chiave jazz la tradizione musette, ma ai suoi tempi Tony Murena era un precursore. E anche se negli ultimi anni (è morto nel 1970) ha ceduto alle mode commerciali, la sua voglia di allargare i confini dello strumento l’ha portato a confrontarsi con musicisti come Astor Piazzolla, Django Reinhardt e Stéphane Grappelli, ospiti talvolta nel jazz club da lui acquistato nel 1949 in rue de Courcelles, Le Mirliton. Una bella carriera, quella di Tony Murena: solo la morte improvvisa di Glenn Miller, nel ’44, gli ha impedito di suonare nell’orchestra più popolare degli Stati Uniti; nel ’47 si è esibito davanti al re di Cambogia Norodom Sihanuk; nel 1958 ha fondato l’Orchestre Musette di Radio-Luxembourg; infine ci ha lasciato canzoni come Passion e Indifférence.
Il più giovane dei tre borgotaresi di Parigi è Lino Leonardi, nato nel 1928. La musica gli entrò nelle vene già nel paese natale, dove la banda musicale ha una tradizione d’eccellenza. Emigrato a Parigi, si fece presto notare come fisarmonicista e quindi come compositore. Realizzò per il cinema diverse colonne sonore – da Le cinéma du papa a Pile ou face, da Mandrin a Cauchemar – e musiche di scena per il teatro. L’incontro con la cantante Monique Morelli, che poi sarebbe diventata la sua compagna, lo restituì all’antica vocazione del fisarmonicista: quella di accompagnare, di sostenere il canto. Un canto non idealizzato ma realistico, che attinge alle gioie e ai dolori della vita: quelli che i poeti vedono prima degli altri. E così, Leonardi si è buttato con dedizione a musicare le poesie di Louis Aragon, Tristan Corbière, François Villon e altri, che la Morelli portava in scena, e cantava con la sua voce arrochita che sapeva di fumo e di vino, vestita sempre di bianco e con una larga sciarpa rossa. “Io devo a Léonardi – ha scritto Louis Aragon – un sentimento strano, quando ascolto ciò che ha fatto di un poema, come se un mago mi tendesse uno specchio in cui mi vedo come mai prima. Lo specchio cui non sfugge nulla di quel che era nascosto nei miei versi, e forse non è uno specchio, ma un’operazione di magia attraverso la quale i sentimenti intimi diventano visibili”. Aragon è stato uno dei più grandi poeti francesi del Novecento.
L’erede, oggi, della tradizione borgotarese della fisarmonica vive a Londra, dov’è nato nel 1966. Si chiama Romano Viazzani e ha dedicato un concerto per fisarmonica e orchestra alla terra natale della madre, la Val Ceno, vallata appenninica prossima alla Val Taro. Il concerto è stato eseguito nel dicembre 2001 con l’Orchestra della BBC durante il London Accordion Festival che Viazzani e la moglie Janet organizzano al Wembley Complex per promuovere la fisarmonica. Viazzani suona in teatro, compone colonne sonore, tiene concerti da solista e, sempre con la sua amata fisarmonica, partecipa ai dischi e alle tournées del sassofonista bebop Gilad Atzmon e del suo complesso The Orient House Ensemble, votati a una miscela musicale pluripremiata che mette insieme jazz e tango, influenze mediorientali e balcaniche.
Intanto a Borgotaro, scrive, compone e studia un musicista jazz di fama internazionale, il milanese Giorgio Gaslini. E’ qui che il maestro da oltre trent’anni ha posto il suo buen retiro: prima in un monastero in pietra del Cinquecento nel piccolo borgo di Gorro, e ora nella quiete e nella luce di una casa ai margini del paese. Perché a Borgotaro – si sa – la musica è nell’aria.
Fonte: Radio Emilia-Romagna (parte 1) (parte 2)
Fonte: Valcenostoria.it
Puntata "Tutti mi chiamano bionda" dedicata alla storia della Val Taro Musette Orchestra su Radio Emilia-Romagna | Lo sguardo altrove, storie di emigrazione | A cura di Claudio Bacilieri. Lettura di Fulvio Redeghieri
(parte 1)
(parte 2)